In viaggio con Guccini

di Martino Chieffo | Gagarin 2011 In viaggio con Guccini. Si fa per dire. Andando a Milano, ho ascoltato Guccini tutto il viaggio. Ma tra Forlì e Imola la radio è spenta. Io guido, lui parla. Ho passato un giorno e una notte a chiedermi cosa chiedergli di tutto quello che vorrei. Vorrei evitare le…

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Categorie: Interviste

di Martino Chieffo | Gagarin 2010

Questo racconto è frutto di pura invenzione, ogni riferimento a persone, situazioni e locations è puramente casuale, oppure è un omaggio, fate voi

Ancora in viaggio. Stanco morto. Esausto (ma poi di che? Dieci ore in ufficio davanti al computer senza pausa pranzo?). Senza sapere se sta andando o tornando. Andando o tornando dove, poi. Un posto, un angolo, suo. Verso la sua ridente town. Ormai è il viaggio il suo posto, il suo angolo. Ottuso. Su e giù ogni giorno, ridente town – Cesena, Cesena – ridente town… o viceversa. Si fotta.

L’Ipod a palla gli riempie la testa cercando di cacciar via le tette della bionda davanti.

Un regionale sporco, che corre nella campagna, sballottandolo, sballottando quelle tette.

Tobia alza il volume.

Bionda, abbronzata, con gli occhi verdi. Qui ci vuole dell’acqua che la gola è ormai secca. Immancabile bottiglietta da mezzo litro del pendolare. Presa al volo nelle macchinette della stazione lasciando li il resto che perdi il treno. Ciondola il ciondolo, sulle rotaie, due rotaie, due tette.

Highway to hell, tuonano gli AC/DC.

Chiude gli occhi, non sa più se è in treno o se sta guidando. Li riapre per sicurezza, anche perché quello che ha visto ad occhi chiusi gli piace troppo. Meglio non esagerare.

Sprofonda nel sedile poi si accartoccia in avanti. Coccolandosi nel vuoto nulla del viaggio, all’altezza di Forlì gli U2 gli ricordano che non ha ancora trovato quello che sta cercando. Come se ce ne fosse bisogno. Di ricordarselo. Come se avesse un senso. Cercare ancora.

Le ha tenute le mani del diavolo. Oh si. Erano calde nella notte, Bono, e lui era freddo come la pietra. Dopo.

Tobia. Angel or devil. Non è nessuno dei due, e perché poi dovrebbe scegliere?

Sceglie di richiudere gli occhi, per un momento. Per tornare indietro.

Un colpo di tosse. Un ragioniere che studia un cazzo di regime fiscale di sa cazzo che cosa.

Un povero leccabuste, ecco cos’è. Tobia un leccaculo con i caporali di turno. Non c’è poi tanta differenza. La stessa bocca amara. E lei con i piedi nudi sul sedile che guarda fuori dal finestrino. Con la custodia di un violino. A cosa pensa. Pensa talmente forte che Tobia non riesce a seguire il filo dei suoi di pensieri. Incrocia il suo sguardo e appoggia la testa sul sedile, di lato.

Dio. Tobia si sente un dio. Poi si sente un moscerino. E non sa cosa sia meglio. E non sa più chi è. Ma Dio sa lui chi è?

Vendi pure la tua anima
al primo che passa
non gli costerà molto
e se un giorno verrà Dio
a chiedertene conto
gli chiederai dov’era
quando l’hai venduta.

Tobia il pio. Tobia il fedele alla legge.

Ormai Tobia scrive solo in viaggio, è solo in viaggio che riesce a fermarsi.

Poesie, canzoni, racconti. Non sa neanche lui dove vuole arrivare. Mette insieme delle parole, le gira le rigira, copia e incolla. È la sindrome dell’impiegato che vorrebbe essere artista. E coltiva feticci. Ogni mese compra un quadernetto nuovo, un nuovo tipo di penna. Da scrittore. Vero. Come se dipendesse dal quaderno, dalla penna.

Ha già attraversato più volte tutte le fasi della vita di un’artista. Depressione, impeto creativo, alcolismo, frustrazione in attesa dell’idea. Tutte le fasi della vita di un artista. Senza esserlo.

Si avvicina la sua fermata, ancora non riesce a togliersi dalla testa che non è stato in grado di trovare un’idea per comunicare ai clienti il compleanno dell’azienda. Battuto sul tempo dalla stagista che, non avendo un cazzo da fare tutto il maledetto giorno lei, ha tirato fuori la genialata. Lei, alle sei meno dieci. E la assumeranno subito, lei, a fine stage mentre lui rimane co.co. pro. a vita. Front desk manager, centralino, dichenoncisono, fammiuncaffé, èfinitalacartaigienicanelcesso, Kunta Kinte… è una copertura, continua a ripetersi come un mantra, la ormai stanca scusa con cui non riesce neppure più ad autoconvincersi. Così sei più libero… libero di potersi proporre come copy free lance a qualche agenzia. Se porti qualche cliente un giorno poi ti facciamo anche scrivere. Non ne ha voglia di ciucciarsi clienti lui, non è un commerciale. Ha studiato comunicazione. Pur di scrivere, è riuscito a descrivere minuziosamente le sensazioni di una notte passata in un Bed & Breakfast calabrese, cullati dal canto delle cicale, calabre, senza averla neppure mai vista la Calabria. È riuscito a scrivere il retro di una confezione di detersivo. Ma si potrà? Un detersivo. La beffa di un cliché. Ah il mondo della reclame. La creatività. Scoprire che per portare i vacanzieri a Lido di Classe basta chiamarlo Milano Marittima Nord, questa è creatività. A quando Pinerella Sud/Tagliata? Ci vuol del pelo sullo stomaco a proporre escursioni andata e ritorno in giornata a Pisa, al casinò di Venezia o ai negozietti di San Marino per comprare il famoso Amaro San Marino, taroccato, ad una coppia di anziani in vacanza a Pinarella. La creatività romagnola. La motonave new gipsy…

Tra la bionda e il lavoro non è riuscito a buttar giù che poche righe.

Ecco è arrivato. Uno sguardo veloce alla bionda, sperando che scenda, e poi giù dal treno. Pigramente, senza più fretta, verso il divano letto che sembra aspettarlo in salotto. Forse ancora distratto, la prende larga. Si perde. Eppure la città sembra sempre la stessa, è sempre la stessa. È lei.

Però, superato l’angolo, ecco comparire la via di un’altra città, in cui è già stato, riconosce le vie, di tante città, Bruxelles, Amsterdam, Parigi, Bologna, Leuven, Belo Horizonte, ma la città è la stessa. Fosse un sogno l’avrebbe anche accettato. Ma così, da sveglio. Proprio non gli va giù. Non c’è una logica. Si è svegliato sicuramente, è sceso dal treno ed è uscito dalla stazione. Ne è certo. Chi è che lo sta facendo diventare pazzo, dove lo sta portando?

Chi è che lo chiama dalla folla?

Chi è che lo guarda con quegli occhi che fanno scomparire ogni cosa intorno?

Welcome back Tobia. Welcome back. Si, ma dove? Dove.

È lei. Ridente town. Si fotta.

Questo racconto è frutto di pura invenzione, ogni riferimento a persone, situazioni e locations è puramente casuale, oppure è un omaggio, fate voi

Vive da sempre ai margini della scena, sul palcoscenico si ma sempre in disparte. Costretta ad accontentarsi degli applausi finali, quelli dedicati a tutta la compagnia. Giulia, 35 anni. Vigile urbano, dimissioni per fare l’attrice. Ma poi non arrivano lavori. Quindi presentatrice in una TV locale, qualche serata qua e la, un po’ di coca ogni tanto e adesso, alla fine di tutto, a spasso. Da sette mesi ormai. The Circus left town. E tu sei scesa dal carro. Un’altra volta. L’attimo prima. Trucco pesante e tette strizzate o finto acqua e sapone da gatta morta?

Chissà cosa stanno cercando stasera, quei pochi che ancora potrebbero darle un po’ d’attenzione. Un’altra occhiata allo specchio e via, fuori, in strada, né troppo presto né troppo tardi. Che sia chiaro che lei dal pub ci passa per caso, come se stesse tornando da una cena con le amiche o andando ad una festa.

Ma poi dove cazzo vado a quest’ora che è aperto solo il biscuit, con quel cavernicolo che non smette mai di toccare con mano. Ci passa davanti, sperando che qualcuno la chiami. Scansiona i presenti con la coda dell’occhio. Rallenta impercettibilmente.

Ad un tavolino tre amiche già sbronze parlano ad alta voce mentre giocano a marafone con un vecchio. Una risata sguaiata le fa intuire l’argomento. Ce l’aveva grosso così. Ti giuro. E io mi son detta. Perché? Adesso questo dove lo metto? Altra risata scontatamente sguaiata. La loro grande burattinaia è nei pressi che posta su facebook le loro foto sgranate con l’I-phone. Un bicchiere rovesciato, una tetta di fuori, finiscono tra i caricamenti con il cellulare. Ma senza taggarla che il marito non veda. Il cavernicolo è li, che controlla tutte, con il bicchiere sempre pieno, fingendo di aver bevuto, per avere sempre una scusa. Per il resto, i soliti vecchi.

Giulia tira dritto, ancora sola e delusa. Vaffanculo, torno a casa. comincia a far freddo la sera, è finita l’estate. Attraversa la piazza, invasa da stranieri appesi al collo di bottiglie di marca indecifrabile. Solo una ragazzina. Bionda. Sola. Cammina veloce. Li in mezzo.

Dove andrà sta sfigata? pensano all’unisono incrociandosi. Si riconoscono a pelle. Stesso destino.

Mani in tasca, spalle strette, occhi sfuggenti. Lisa incrocia una rossa, passatella, a caccia sicuro, e attraversa la piazza piena di marocchini con passo nervoso. Il freddo intenso e secco le brucia le gote arrossate. È finita l’estate. Non c’è meta ai suoi passi. Una fuga, fine a se stessa. Si lascia dietro la piazza piena di stranieri, come lei, sospesi tra un posto e un altro. Come in una bottiglia. Senza speranza.

Cosa vuoi sperare a 21 anni, quando l’orizzonte è il palazzo grigio a quattro metri dalla finestra della tua camera. Il benessere non ci ha reso felici, solo depressi.

Sono stanca. Si ferma in un pub dove quattro amiche giocano a carte, una ride sguaiata, una, ed è l’attimo prima. squintata, le guarda e gioca con il cellulare. Un vecchio satiro scruta tutte. Capello unto, lungo. Barba incolta. Ogni tanto apre la bocca per fare qualche commento osceno. Una voce bassa, profonda. Da cavernicolo. Una vecchia baldracca sulle sue ginocchia.

Un vecchio professore più che ubriaco, completamente bevuto. Inebetito. Guarda il tavolo accanto al suo, non vede le persone sedute, vede solo i loro bicchieri. Aspetta che se ne vadano, finirà lui le loro birre. I suoi occhi incrociano per un attimo quelli di Lisa. Vuoti e lacrimosi.

Il fatto di vedere qualcuno messo peggio di lei non la consola. La rattrista solo. Forse aveva ragione mio padre che prima di morire diceva che quando è la fine è uno schifo. Sarà possibile che tutto debba finire così, in questo schifo? Un cristo in croce, senza Dio.

Un inglese a un tavolino pieno di bottiglie di vino vuote sfoglia le stampe pdf del giornale di domani. Panama sformato. Sigaretta mezza spenta all’angolo della bocca. Scuote la testa, bofonchia e con una matita corregge gli errori nei titoli. Turchini! grida nel cellulare ma chi ha corretto le bozze? Bozze, testi, errori, parole.

Ridi perché non sai, ancora non sai,
ridi perché non vuoi, ancora non vuoi,
ma già sai e già vuoi, ed è l’attimo prima.
Bevo il mio vino, ingoio il mio aceto,
voci slave coprono la mia.

Lisa riprende dalla tasca dei pantaloni il biglietto del treno stropicciato dietro cui ha scritto delle parole. Una canzone?

L’amore non esiste, l’amore è uno schifo. È quel numero di telefono su un post-it stropicciato. Rimasto sul frigo. Finisce la birra.

Riparte di scatto. Di nuovo in fuga. Il maglione blu a collo alto le sfrega la pelle e l’aria fredda la tiene sveglia. La stazione degli autobus non è un bel posto dove tirare l’alba. I soldi per una camera li avrebbe anche, forse l’ultima, ma non vuole fermarsi. In un posto. E come cazzo si chiama sto paesucolo? Ridente town. Cosa c’avrà poi da ridere.

di Martino Chieffo | Gagarin 2010

L’occasione è ghiotta. Umberto Eco, scrittore, filosofo, accademico, semiologo, linguista e bibliofilo di fama internazionale, 37 lauree honoris causa, innumerevoli onorificenze e titoli accademici, imitazione da parte di Fiorello compresa, Eco dicevo trascorre a Forlì un giorno intero per una serie di conferenze e decido di seguire uno degli incontri per estorcergli un’intervista volante. Al termine del suo intervento in Università, durante il quale ha letteralmente torturato la collega che moderava, mi avvicino all’esimio letterato, chiedo il permesso di fargli qualche domanda e accendo il registratore. Di fronte al luminare vengono meno tutte le certezze e le otto domande che ho preparato la notte prima si rimescolano tra di loro nel mio stomaco. Sbaglio in partenza perché lo chiamo Professore. Subito ripiombo nell’insicurezza disperata dello studente, che non si è preparato bene, in sede di esame. Anche io, perdonatemi, scrivo ma per diletto. Lui è un provocatore nato, deliziosamente sadico, piccato e sintetico nel rispondere alle mie domande mentre si rimette il cappotto, firma autografi, posa per foto ricordo e si avvia con il suo bastone al pranzo con gli accademici. La signora in giallo, con i baffi. Mi presento, gli accenno qualcosa sul fatto che Gagarin vuole fare informazione divertendo e gli chiedo qual è il ruolo dell’umorismo nella cultura. «Il ruolo dell’umorismo nella cultura è centrale. Certo è difficile trovare dell’umorismo in Sofocle, ma non c’è altro in Rabelais. L’umorismo è una delle forme del discorso e del pensiero. Se si fa dell’umorismo alla Rabelais esso ha un ruolo centrale, se si fa dell’umorismo alla Bagaglino no».

A lui che frequenta assiduamente la rete, che ha aggiornato personalmente il proprio profilo su wikipedia, ma che ha anche pubblicato insieme allo sceneggiatore Jean-Claude Carrière il volume Non sperate di liberarvi dei libri in cui afferma che «il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici. Una volta che li hai inventati, non puoi fare di meglio», chiedo se in epoca di Facebook, Twitter e compagnia bella si può ancora fare cultura. «Mah, voglio dire, cosa vuole dire fare cultura? Lei vuol dire fare arte o fare cultura?

Se attraverso Facebook io comunico una correzione della teoria della relatività faccio cultura, così come potevo farlo su una tavoletta sumera, così come posso fare con un telegramma se scrivo e=mc²». Effettivamente leggendo il volume in cui si passa dai papiri agli e-book, si capisce che i due autori non vogliono esaltare l’importanza del libro in sé, ma affermano l’esistenza del «concetto di permanenza e di durevolezza della memoria, veicolata dai libri, che rappresenta la cultura».

Ma data la facilità con cui attraverso Internet si possono trovare informazioni c’è ancora bisogno della figura del maestro?

«Sì perché Internet… mentre la televisione fa bene ai poveri ma fa male ai ricchi, cioè insegna al contadino analfabeta almeno a parlare in italiano, ma se lei passa tutta la giornata davanti alla televisione diventa più stupido di prima (mentre trascrivo la registrazione mi rendo conto che, con molta classe o savoir faire come probabilmente direbbe lui, ha sottinteso che io ero stupido anche prima, nda), Internet fa bene ai ricchi e fa male ai poveri. Cioè a me fa bene, perché io sono in grado di discriminare tra le informazioni che mi dà, ad uno studente può fare malissimo ed è qui la funzione del maestro che è quello che ancora insegna a filtrare». Stando a wikipedia, e lui dovrebbe aver filtrato per noi queste informazioni, pare che Eco non solo sia un bondologo, un esperto conoscitore del James Bond di Ian Fleming, ma anche un appassionato di Dylan Dog. Azzardo e gli chiedo come sceglie un libro. «Non lo scelgo, io non leggo libri, io scrivo».

Non ci credo, riprovo e gli chiedo come legge un libro Umberto Eco? Le ho detto che non leggo. Io scrivo. Il gelo, alcuni secondi di gelo totale. Poi lui sadico, mentre firma un altro autografo, affonda la lama sino a toccare l’osso, «comunque da sinistra a destra e dall’alto in basso, normalmente, se non è ebraico». Touché. Durante la conferenza sul tema Del tradurre e dell’interpretare cui ho assistito, Eco ha riconosciuto che il traduttore di un suo libro, traducendo in un certo modo un passaggio ha messo in luce che il passaggio stesso dava adito ad un’interpretazione diversa, addirittura migliore, di cui Eco non si era avveduto. «A volte i testi sono più intelligenti di chi li scrive». Parafrasandolo cerco di provocare il provocatore: allora c’è speranza che anche la cultura possa essere intelligente?

«Se lei pensa che noi del passato sappiamo tutto attraverso testi… può darsi che Dante fosse più stupido della Divina Commedia (oh, l’ha detto lui eh, nda) ma noi abbiamo a che fare con la Divina Commedia non con Dante, quindi la cultura è esattamente questo: avere a che fare con documenti che dobbiamo saper rendere intelligenti. Finito?». Lo ringrazio e mi allontano con le pive nel sacco. Andandomene e dandogli le spalle temo possa darmi una legnata con il bastone. Bastonata semiologica s’intende.