In viaggio con Guccini

Guccini Gagarin Martino Chieffo

di Martino Chieffo | Gagarin 2011

In viaggio con Guccini. Si fa per dire. Andando a Milano, ho ascoltato Guccini tutto il viaggio. Ma tra Forlì e Imola la radio è spenta. Io guido, lui parla.

Ho passato un giorno e una notte a chiedermi cosa chiedergli di tutto quello che vorrei. Vorrei evitare le domande consuete… Vorrei che fossero le quattro del mattino… Vorrei un po’ di vinoVorrei.

Guccini cantautore, scrittore, fumettista, pubblicitario, attore… È anche, tra gli uomini di cultura italiani, il signore incontrastato del regno animale, minerale e vegetale. Gli hanno dedicato una farfalla (Parnassius mnemosyne guccinii), un asteroide (39748 Guccini) ed un cactus (Corynopuntia guccinii). Mi intimorisce un po’. Non sa nemmeno che viso ho, a malapena come mi chiamo. Ma ha accettato. Suona libero, risponde lui. Voce allegra, sta scrivendo.

Scrivere una canzone a vent’anni e una a settant’anni, cos’è cambiato? «Beh è cambiato molto, nel senso che a settant’anni non ne ho scritta ancora nessuna… Gli argomenti che avevo allora erano tanti, adesso ne ho meno. E poi sono cambiato io come cambiamo tutti con il procedere dell’età».

Però ai tuoi concerti ci sono tre generazioni…

«Le canzoni in realtà sono quelle di un tempo. Sono pochissime le canzoni nuove, una o due, non di più».

Ti ho sentito dire che le canzoni in questo momento non arrivano.

«Difatti (lapidario, ecco ho pestato una merda penso, ndr)».

Ma questo ti pesa (allora me le cerco)?

«No, faccio altre cose, non sono canzoni, sto scrivendo altre cose. Certo mi piacerebbe fare un altro disco, forse l’ultimo tra l’altro… Diciamo che la furia compositiva che avevo verso i venti, trent’anni non c’è più, gli argomenti che ho trattato sono tantissimi, è difficile trovarne dei nuovi. E poi sai, a settant’anni si cominciano ad avere argomenti tristi… tanti amici se ne sono andati e io mi sento un po’ come in rampa di lancio… (ride). Poi a settant’anni non è che ci sia la forza della giovinezza».

Ti ho sentito dire: «Non mi sono accorto di aver detto cose di grandissima importanza, ho sempre espresso quello che pensavo». «Si è vero, forse sono stato sopravvalutato».

Però le tue canzoni hanno letteralmente formato tre generazioni, non senti di avere una responsabilità?

«Sì. No. Sì, ma nel senso che sono sempre stato onesto, responsabilità non penso di averne, però ho la consapevolezza di aver fatto cose non dico importanti ma interessanti, che è abbastanza diverso. C’è differenza tra importante, interessante e serio».

Forse è un po’ cambiato il ruolo del cantautore, un tempo faceva cultura, faceva riflettere, la gente si voleva confrontare con un cantautore perché era colui che aiutava la gente ad esprimere quello che da sola non era in grado di esprimere.

«Non era certamente un ruolo di maestro di pensiero, ma un ruolo di persone serie, che facevano dialogare, ognuno con i propri argomenti, con le proprie tesi, le proprie verità o mezze verità».

Sei tornato a vivere a Pàvana, dove hai imparato a camminare, a parlare e ad ascoltare le storie. Insegui la memoria?

«Come dicevo quando ho fatto il long playing (credo sia l’ultimo in Italia ad usare ancora questa definizione, davvero come ha detto Eco è forse il più colto dei cantautori in circolazione) Radici. Tutti volevano far tabula rasa un po’ di tutto, del passato, io pensavo invece che se non avessimo riesaminato il nostro passato saremmo stati un po’ ciechi nel guardare quello che ci circondava e sapere quello che eravamo arrivati ad essere. La memoria è molto importante, ricordare come eravamo, cosa abbiamo fatto, e cosa avevano fatto quelli prima di noi. È da allora che coltivo questo interesse per la memoria, mi interesso anche di storia, di tradizioni locali, popolari. Per questo motivo».

Il tuo debutto ufficiale in concerto, dicembre del ’68. Cosa ricordi?

«Ricordo un grande timore prima di salire sul palco, feci solo quattro pezzi (ride). Non ero abituato ad avere un pubblico grosso davanti. Timore che c’è sempre prima di salire sul palco, ma allora era particolare perché era la prima volta che affrontavo una platea».

Dopo tanti concerti, ancora timore?

«Eh beh, bisogna averlo, bisogna essere molto svegli, molto tesi, e che l’adrenalina si scateni, altrimenti… È un bene avere un po’ di timore, perché si è lucidi, si fa una gran attenzione».

Le canzoni nuove le fai prima sentire a qualcuno?

«Prima si faceva sentire agli amici, la canzone nuova si fa sempre sentire al circolo ristretto degli amici, c’è il piacere di far sentire un pezzo nuovo».

Preferisci il grande pubblico o pochi amici?

«C’è differenza, differenza di rapporto con il pubblico. Quello dello spettacolo è una specie di teatro, in cui reciti una canzone, credendoci, ma ci sono le luci, l’amplificazione. Il rapporto familiare è una cosa immediata, ristretta, intima. È bello avere tutti e due i momenti, sono entrambi interessanti e importanti».

Cos’è per te l’amicizia? Ricorre in tante tue canzoni…

«Definirlo è difficile, ci sono conoscenti, amici con cui hai fatto i bambini insieme. Ci sono amicizie collaudate, spesso nascono da condivisione di punti di vista, da interessi comuni, persone con cui ti trovi molto bene, con cui puoi parlare liberamente. Non riesco a definire l’amicizia, ma è importante per me come penso per la vita di tutti».

Hai sempre detto di non voler fare canzoni usa e getta, ma canzoni che volessero dire qualcosa per qualcuno. Temi impegnati, intimi. Cosa mi dici della felicità?

«In questo periodo un po’ mortifero (si riferisce agli amici che non ci sono più o al clima politico e culturale? ad entrambi?, ndr) forse può saltar fuori una canzone sulla felicità, è un recupero di argomento, di pace e di tranquillità, perché si cambia anche il senso di felicità nel corso degli anni. E quindi tranquillità, pace e serenità possono essere adesso la felicità. Oppure il godersi quello che la vita ti può offrire senza cercare cose esotiche, trovarla in te».

Ed è uguale parlar di pace oggi rispetto agli anni ’60/’70?

«Sì e no. Sì perché gli argomenti di allora erano particolari. Auschwitz era un argomento che toccava un fatto che era abbastanza recente, che però colpisce ancora. C’erano delle stragi che succedono ancora, ancora adesso ogni tanto si scoprono delle fosse comuni da qualche parte. Sono degli argomenti che non si risolvono mai purtroppo».

Probabilmente è lo stesso per il tema dell’ingiustizia visto come viene ancora cantata Locomotiva. Ma cosa ti emoziona quando sei sul palco?

«La spalla del pubblico. Ci deve essere la spalla del pubblico. Nel senso di due attori che si fronteggiano. E quindi quello che ti dà il pubblico quando stai sul palco, c’è il boato. Sono piacevoli emozioni».

Emozioni. Ero emozionato. Non gli ho chiesto come sta, come trascorre la giornata, se ha nostalgia di qualcosa, che cosa lo diverte. Non gli ho detto che per scherzo qualcuno mi chiama Martino Guccini perché spesso bevo vino mentre canto.

Ciao Francesco, grazie della chiacchierata. Ti ascolterò ancora un po’… dall’autoradio. Verrò a cercarti a Pàvana, per continuare il discorso. Adesso mi fermo, c’è un autogrill.